Storia contemporanea
La seconda guerra mondiale
Il secondo conflitto mondiale rappresentò per i territori dell’ex regno di Jugoslavia un periodo di caos e durissime violenze. La Bosnia-Erzegovina, inserita nel Nezavisna Država Hrvatska, il “Nuovo Stato Croato” in mano ai nazisti e ai famigerati Ustaša capeggiati da Ante Pavelić, si trovò, a causa della sua variegata composizione etnica (serbi, croati, musulmani, oltre a svariate altre etnie minori) ad essere un campo di battaglia di tutti contro tutti: contro il regime di Pavelić, che perseguiva l’eliminazione fisica di tutte le componenti non croate e non cattoliche della popolazione, agivano infatti sia i cetnici serbi di Dragoljub Mihajlovič sia i partigiani di Josip Broz (più conosciuto col nome di battaglia, Tito). Mentre i primi, in gran parte ex-ufficiali serbi del disciolto esercito jugoslavo, sposavano un’ideologia monarchica e si dichiaravano fedeli al re Pietro II, esiliato a Londra, i secondi sposavano un’ideologia di stampo repubblicano e socialista e combattevano per creare una Jugoslavia multietnica. Questi due gruppi erano profondamente diversi tra loro non solo per ideologia, ma anche per tecniche di combattimento: i cetnici odiavano in egual misura gli ustaša croati, i musulmani bosgnacchi e i partigiani titini e non di rado collaborarono con i tedeschi e con il governo-fantoccio serbo (insediato ad arte dai nazisti, ma formalmente autonomo) per sterminare tutte e tre queste categorie di persone, speranzosi che gli Alleati avrebbero favorito il ritorno della vecchia monarchia su un territorio il più possibile libero da non-serbi; i partigiani di Tito, forti del loro numero, piuttosto elevato in tutto il territorio dell’ex regno di Jugoslavia, intrapresero invece la strada dello scontro aperto o della guerriglia di logoramento contro gli occupanti tedeschi ed i regimi da loro favoriti.
Alla fine della guerra, a prevalere furono i partigiani di Tito, non solo perché molto più numerosi e meglio organizzati dei cetnici, ma anche perché vennero sostenuti ed abbondantemente armati dagli Alleati, che da un certo momento in poi individuarono in loro l’unica forza in grado di sconfiggere militarmente gli invasori nazi-fascisti.
Il dopoguerra
Il 25 novembre 1945 venne proclamata la Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia (RSFJ), comprendente sei Repubbliche: Slovenia, Croazia, Serbia, Montenegro, Macedonia, Bosnia-Erzegovina, ciascuna con i suoi confini storici. Il gruppo dirigente della nuova Jugoslavia era composto in gran parte da rivoluzionari di professione, che si preoccuparono immediatamente di mettere a tacere qualsiasi forma di dissenso e qualsiasi rivendicazione basata su considerazioni etniche: nacquero un potente esercito (lo JNA) e un efficiente servizio segreto, col compito difendere l’ unità e fratellanza delle popolazioni jugoslave da attacchi esterni, ma anche da qualsiasi forma di dissenso interno.
Dietro il paravento dell’unità e fratellanza dei popoli jugoslavi, si nascondevano però una serie di rancori e rivendicazioni etniche, diretto portato delle turbolente vicende storiche precedenti. In particolare va ricordato che:
La Serbia, oltre a perdere il controllo sulla Macedonia e sul Montenegro (che divenivano Repubbliche autonome), veniva costretta anche ad accettare la costituzione, sulla porzione di territorio a lei rimasta, di due province autonome, la Vojvodina a nord ed il Kosovo a sud. Al momento non fu possibile protestare in alcun modo, ma in seguito, alle recriminazioni di chi denunciava un’eccessiva presenza di serbi nei posti chiave dell’esercito e della burocrazia jugoslava, la Serbia avrebbe risposto di esser stata la Repubblica che più si era sacrificata per la Jugoslavia, accettando di perdere sovranità su territori da lei conquistati militarmente (Kosovo e Macedonia) o che si erano a lei uniti volontariamente (Montenegro) o in seguito a trattati di pace (Vojvodina). Tra questi territori, quello più critico era e rimase sempre il Kosovo, considerato dalla Chiesa ortodossa serba una sorta di culla spirituale, ma abitato per la stragrande maggioranza da albanesi.
Tanto la Croazia quanto la Serbia rivendicavano ampie porzioni di territorio bosniaco-erzegovese o addirittura lo smembramento dell’intera Bosnia-Erzegovina.
L’unità della nuova Jugoslavia – L’unità della Bosnia
La Bosnia-Erzegovina si trovava ad essere non solo geograficamente, ma anche simbolicamente, il cuore della nuova Jugoslavia, della quale rappresentava al meglio lo spirito multietnico, ma anche le molte contraddizioni e i molti problemi irrisolti. Sul suo territorio vivevano, oltre ad un certo numero di minoranze, croati, serbi e musulmani. I nazionalisti sia serbi che croati negavano che i musulmani bosniaci costituissero un gruppo etnico, ma ciò veniva di fatto riconosciuto da Tito nel momento in cui vennero dichiarati nazionalità costituente della Bosnia-Erzegovina insieme a serbi e croati. Si trattò in verità di un’operazione di equilibrismo: formalmente i musulmani venivano riconosciuti come nazionalità costituente della Bosnia-Erzegovina, ma di fatto essi non comparirono mai come tali in alcun atto ufficiale per molti anni (la stessa scelta di chiamare queste persone musulmani e non bošnjaci, come pure era stato proposto, era un espediente per evitare che essi venissero percepiti come più bosniaci dei serbi e croati di Bosnia). Secondo il censimento del 1910, la popolazione della Bosnia-Erzegovina era composta per il 43,49% di serbi ortodossi, per il 32,25% da musulmani, per il 22,87% di croati cattolici. Tale rapporto era rimasto sostanzialmente invariato fino allo scoppio della seconda guerra mondiale, ma dopo la fine di questa si assistette ad una esplosione demografica della componente musulmana, abilmente mascherata dal fatto che nei censimenti jugoslavi del 1951 e 1961 era possibile dichiararsi solamente “serbi”, “croati” o “jugoslavi”. L’ora della verità giunse soltanto col censimento del 1971, in cui divenne di pubblico dominio il fatto che i musulmani erano diventati il gruppo etnico maggioritario in Bosnia-Erzegovina. Ciò fece riemergere una serie di paranoie nazionaliste non solo e non tanto tra i serbi ed i croati bosniaci, ma anche e soprattutto nella stessa Serbia che, circondata da popoli di fede musulmana (gli albanesi kosovari a sud, i bošnjaci ad ovest) ebbe gioco facile, durante la fase di disfacimento della Jugoslavia seguita alla morte di Tito, nel rispolverare il mito dei serbi orgogliosi difensori della cristianità, accerchiati dai turchi ma decisi a resistere con ogni mezzo, come ai tempi di Kosovo Polje o della rivolta di Karadjordje.
Lo stato federale
Non è possibile comprendere gli avvenimenti che portarono alla guerra in Bosnia, nel 1992-95, senza considerare almeno brevemente l'architettura politico-istituzionale della Jugoslavia dopo il 1945. Come già detto, la Jugoslavia era una federazione di Stati i quali, secondo il preambolo della costituzione del 1945, poi mantenuto in tutte le successive versioni, avevano il diritto di separarsi dalla federazione stessa.
Le istituzioni federali si basavano su un complesso gioco di equilibri: la presidenza federale era composta da un membro per ogni Repubblica e regione autonoma, più il presidente della Lega dei comunisti. La carica di capo di Stato venne assegnata a vita a Josip Broz (Tito), con l'accordo che, dopo la sua morte, sarebbe stata ricoperta ogni anno da una personalità di una diversa Repubblica.
Si trattava di un sistema altamente instabile, che si reggeva su regole macchinose e che in ultima analisi riusciva a sopravvivere perchè a fare da collante vi erano l'esercito e la Lega dei comunisti. Tuttavia, è indubbio che per almeno una ventina d'anni, fino alla seconda metà degli anni sessanta, questo sistema funzionò. Dopo che, nel 1948, si era verificata una brusca rottura tra l'URSS di Stalin e la Jugoslavia di Tito, quest'ultima divenne un Paese socialista particolare: al clima da caccia alle streghe e ai campi di lavoro per gli oppositori politici, che purtroppo accomunavano la Jugoslavia al suo nuovo nemico sovietico, si affiancavano orientamenti socio-politici molto differenti. In Jugoslavia, anche se le varie Chiese venivano guardate con sospetto perchè considerate potenziali focolai di nazionalismo, vigeva una discreta libertà di culto ed inoltre i cittadini jugoslavi godevano di una libertà di movimento fuori dai confini nazionali sconosciuta a qualsiasi altro cittadino di uno stato socialista europeo. Sulla scena internazionale, la Jugoslavia si presentò come potenziale leader dei Paesi non allineati, quei Paesi cioè che non volevano riconoscersi nè nel blocco sovietico nè in quello statunitense, diventando così oggetto di profondo interesse in un mondo che sembrava irrimediabilmente bloccato dalla logica della guerra fredda.
Le riforme – la Costituzione del 1974
I primi seri problemi per la tenuta della federazione si manifestarono sul finire degli anni sessanta. Oltre che da sud (nel 1968 in Kosovo si erano riaccese le tensioni interetniche e la maggioranza albanese chiedeva a chiare lettere l'indipendenza della provincia) i guai venivano, per Tito, anche da Nord, dove Slovenia e Croazia, cioè le Repubbliche più ricche ed industrializzate, chiedevano a gran voce riforme che aprissero maggiormente la Jugoslavia ai mercati europei. A Belgrado si scontrarono due visioni: quella centralista, che voleva bloccare qualsiasi cambiamento rafforzando anzi il ruolo di esercito, servizi segreti e Lega dei comunisti come controllori dell'unità jugoslava e quella liberale, che finì per prevalere. Venne dunque avviato un vasto processo riformatore, che portò ad esempio a riconoscere e valorizzare maggiormente le minoranze linguistiche (in Vojvodina) e le etnie non-slave (in Kosovo vennero create università dove i corsi erano tenuti in lingua albanese e agli albanesi vennero riservate quote maggiori negli uffici pubblici).
Tale processo riformatore trovò espressione politica nell'approvazione della nuova carta costituzionale (1974), dove si stabiliva che nessuna importante legge poteva essere approvata senza il consenso delle assemblee di tutte le Repubbliche e province autonome. Questo sistema, per cui ogni entità statale della federazione esercitava un voto ed un veto, pur nato per assicurare maggior peso alle realtà locali contro il centralismo di Belgrado, finì per determinare un perenne immobilismo politico-istituzionale: nell'incapacità di elaborare e far approvare qualsiasi seria ed organica riforma economica, a partire dalla seconda metà degli anni settanta la Jugoslavia scivolò verso una crisi sempre più profonda.
Jugoslavia – Il ruolo della Bosnia-Erzegovina
In tutto questo, che ruolo ricopriva la Bosnia-Erzegovina? Questa Repubblica, la cui stessa esistenza era condannata dal nazionalismo serbo e croato, era guardata a vista come uno dei possibili focolai di conflitto fin dal 1945. Sul suo territorio, come abbiamo visto, si era consumata tra il 1941 ed il 1945 una tragica lotta di tutti contro tutti che aveva seminato odii, rancori, sete di vendetta. E' però altrettanto vero che la Bosnia-Erzegovina vantava un'antichissima tradizione di convivenza pacifica tra etnie e religioni differenti, risalente ai tempi in cui essa era una tra le più importanti province dell'impero ottomano, culla di una raffinata cultura artistica e letteraria. La sua capitale, Sarajevo, era una città cosmopolita, dove i matrimoni misti erano la norma.
A causa del proprio burrascoso passato, la Bosnia-Erzegovina era terra di grandi contraddizioni: da una parte la borghesia cittadina sarajevese e mostarina, abituata alla tolleranza ed alla civile convivenza, dall'altra i contadini delle aree rurali che, anche quando erano portati dall'industrializzazione ad inurbarsi, mantenevano una mentalità chiusa, arroccata su principi quali la difesa delle tradizioni e del suolo degli avi, sulla quale potevano facilmente far presa il nazionalismo ed il fondamentalismo religioso.
Nonostante fosse stata sempre governata col pugno di ferro da fedelissimi di Tito, la Bosnia-Erzegovina cominciò a registrare negli anni settanta una preoccupante diffusione della propaganda nazionalista serba sul proprio territorio. La situazione peggiorò negli anni ottanta, quando, dopo la morte di Tito, due personaggi allora semisconosciuti vennero condannati a svariati anni di carcere dalle autorità di Sarajevo. Si trattava di Alija Izetbegović, accusato di fondamentalismo islamico per aver pubblicato un testo dal titolo “Dichiarazione islamica” e di Vojislav Šešelj, un docente universitario serbo che in uno scritto non pubblicato definiva la Bosnia una nazione inventata, proponendone la spartizione tra Croazia e Serbia.
Il dopo Tito – Indipendenza e nazionalismi
Sul finire degli anni ottanta, la Jugoslavia si trovava in una situazione di gravissima crisi, che il presidente del consiglio federale, il croato Ante Markovič, sperava di poter risolvere con un’ambiziosa opera di riforma economica. Tale proposito, tuttavia, era assolutamente irrealizzabile dato il profondo disaccordo tra le varie Repubbliche. In Slovenia le prime elezioni libere, nel 1990, avevano portato al potere una coalizione di partiti di ispirazione liberal-democratica ed europeista, che chiedevano una totale apertura del loro Paese al libero mercato, con o senza il resto della Jugoslavia.
Non faceva mistero di puntare all’indipendenza da Belgrado anche la Croazia, dove, nello stesso 1990, aveva preso il potere l’Unione Democratica Croata, un partito di ispirazione fortemente nazionalista guidato da Franjo Tudjman e finanziato in buona parte dalla diaspora croata all’estero. Appena eletto presidente della Croazia, Tudjman compì una serie di atti irresponsabili e provocatori, come ad esempio l’approvazione di una nuova costituzione che toglieva ai serbi lo status di popolo costituente della Repubblica di Croazia, relegandoli al ruolo di semplice minoranza, e la riabilitazione del famigerato regime degli ustaša e dei suoi simboli. Tra i serbi di Croazia, circa 600.000 persone, si diffuse rapidamente il panico e attecchì la propaganda, altrettanto intrisa di fanatismo nazionalista, di Slobodan Miloševič.
Salito al vertice del partito comunista serbo nel 1987, Miloševič aveva da subito sposato le tesi del Memorandum dell’Accademia Serba delle Scienze e delle Arti, uno scritto dell’anno precedente in cui numerosi intellettuali proponevano la creazione di una Grande Serbia, un’unica entità statale che avrebbe dovuto coprire tutti i territori abitati da serbi (dunque la Serbia, le sue province autonome del Kosovo e della Vojvodina, il Montenegro e parti di Croazia e Bosnia-Erzegovina). In questo scritto venivano rispolverate tutte le paranoie sul ruolo storico della Serbia, che si sarebbe, nel corso della storia, più volte sacrificata per salvare l’Europa dal pericolo di un’invasione dei turchi (appellativo con cui genericamente venivano indicati tutti i musulmani) e ora reclamerebbe un ruolo di grande potenza. Grazie al potere che, da Belgrado, poteva esercitare sui servizi segreti e sull’esercito jugoslavo, Miloševič era riuscito abbastanza rapidamente a sostituire i governi di Montenegro e Vojvodina con governi a lui favorevoli, per poi dedicarsi ad una massiccia opera di repressione nei confronti degli albanesi del Kosovo: nel 1989 l’autonomia della provincia venne abolita, vennero chiuse le università in lingua albanese ed il serbo tornò ad essere l’unica lingua ufficiale.
Slovenia e Croazia – Mitteleuropa e nazionalismo
Non stupisce affatto, date queste premesse, che la Serbia Miloševič non abbia fatto nulla per calmare l'incendio che, a partire dal 1990, dilagò nelle aree a maggioranza serba della Croazia, ma abbia anzi soffiato sul fuoco di tale incendio. I focolai della rivolta serba contro il governo di Tudjman furono Knin (un importante nodo ferroviario dell'entroterra dalmata) e le pianure della Slavonia (in particolare la zona delle Krajine, dove secoli prima l'impero austro-ungarico aveva insediato la popolazione serba, considerata avezza alle armi, in funzione di difesa dei propri confini dalla minaccia ottomana). Quando, il 25 giugno 1991, Croazia e Slovenia si dichiararono contemporaneamente indipendenti da Belgrado, queste aree della Croazia si trovavano di fatto già in una situazione di guerra, con l'esercito jugoslavo (JNA) che appoggiava apertamente le polizie locali, serbe, nella loro rivolta contro il governo centrale di Zagabria. In un primo momento, tuttavia, Belgrado preferì concentrarsi sulla Slovenia, che sperava di ricondurre all'obbedienza con una operazione militare lampo: in realtà, la Difesa Territoriale Slovena, che in passato la stessa Belgrado aveva armato e addestrato, ebbe rapidamente la meglio contro quello che veniva considerato uno degli eserciti migliori del mondo. Su questo epocale fallimento dello JNA ci sono molte interpretazioni: pesarono certo la sottovalutazione del reale pericolo e le diserzioni (i quadri di comando dell’esercito jugoslavo erano composti in stragrande maggioranza da serbi, ma non così le truppe: da qui in poi il fenomeno delle diserzioni di soldati non serbi dallo JNA diverrà massiccio), ma è anche probabile che Miloševič, ormai rassegnato alla disgregazione della Jugoslavia, non fosse poi così interessato alla piccola ed etnicamente omogenea Slovenia: il suo progetto era ormai quello di “limitarsi” a mantenere il controllo dei territori che avrebbero dovuto far parte della Grande Serbia, disinteressandosi del resto dell’ex-Jugoslavia.
Un assaggio di quello che di lì a poco sarebbe stato il mattatoio bosniaco si ebbe pochi mesi dopo la guerra-lampo in Slovenia, nell’autunno del 1991. La città di Vukovar, nella Croazia nord-orientale (Slavonia), già da mesi teatro di scontro tra nazionalisti serbi ed autorità croate, venne posta sotto assedio dallo JNA. Si trattò di un’operazione ben diversa da quella slovena, durante la quale si registrarono due fenomeni destinati di lì a poco a ripetersi sui campi di battaglia di tutta la Bosnia-Erzegovina: la completa serbizzazione dell’esercito assediante (quasi tutti i non-serbi disertarono o passarono al nemico) e, soprattutto, la comparsa di famigerati gruppi paramilitari, armati ed incoraggiati da Belgrado per compiere le più efferate operazioni di “pulizia etnica” (ricordiamo che le “Tigri” di Željko Ražnatović, detto “Arkan”, fecero la loro comparsa proprio durante l’assedio di Vukovar). Quando cadde, nel novembre 1991, Vukovar era ridotta ad un cumulo di macerie: mai, nella storia europea dopo il 1945, si era assistito a qualcosa di simile. Diventò in quel momento chiaro a tutti che le autorità di Belgrado non si sarebbero fermate davanti a nulla, così come divenne chiaro che a fare le spese dell’escalation di violenza nazionalista serba e croata sarebbe stata, entro breve tempo, la multietnica Bosnia-Erzegovina.
Bosnia – Indipendenza o divisione
La Bosnia-Erzegovina si affacciò agli anni novanta confermandosi terra di grandi contraddizioni. Il censimento tenutosi nei primi mesi del 1991 diceva che la sua popolazione era composta per il 44% da musulmani, per il 31% da serbi e per il 17% da croati, oltre ad altre minoranze. Serbi, croati e musulmani vivevano sparsi su tutto il territorio della Repubblica: i serbi risultavano insediati nel 94,5% del territorio, i musulmani nel 94%, i croati nel 70%. In questo vero e proprio mosaico etnico, sembrava assolutamente impossibile tracciare linee divisorie e, da un sondaggio commissionato alcuni mesi prima delle elezioni, risultò che ben pochi lo desideravano: il 74% degli interrogati si dichiarava avverso ai partiti nazionalisti. Eppure, quando si arrivò al dunque, i bosniaci, spaventati dalla propaganda e in assenza di reali alternative, premiarono comunque i partiti che promettevano di difendere la loro etnia: il Partito di Azione Democratica (musulmano) di Alija Izetbegović, il Partito Democratico Serbo di Radovan Karadžić e l’Unione Democratica Croata di Stjepan Kljuić raccolsero, complessivamente, il 71% dei voti, spartendosi poi il potere secondo il vecchio sistema del bilanciamento etnico. Tale sistema, che aveva funzionato nella Jugoslavia socialista, non avrebbe potuto in alcun modo salvare la Bosnia Erzegovina dal disastro: qui, infatti, mancavano quegli elementi di controllo e coesione (Tito, l’esercito, la lega dei comunisti) che in passato avevano mantenuto in vita la federazione. Anzi: le forze esterne, cioè Serbia e Croazia, spingevano i partiti etnici bosniaci a radicalizzare sempre più le proprie posizioni. In tutto questo, paradossalmente, l’etnia che più aveva da perdere era proprio quella maggioritaria, musulmana, che si trovava senza “sponsor” per armare un proprio esercito (in seguito, durante il conflitto, tali “sponsor” sarebbero stati trovati tra i Paesi arabi).
La decisione di seguire l’esempio di Slovenia e Croazia, indicendo un referendum per l’indipendenza dalla Jugoslavia, può sembrare un vero e proprio suicidio per la Bosnia Erzegovina, ma bisogna anche ammettere che la strada verso la disgregazione di questa Repubblica era già avviata e che alla componente musulmana restavano poche altre strade da percorrere per riaffermarne l’unità. Il referendum, voluto fortemente soprattutto da Izetbegović, che occupava la carica di presidente, si tenne il 29 febbraio e 1 marzo 1992, con esito scontato: la maggioranza dei serbi raccolse l’invito di Karadžić a boicottare il voto, mentre i musulmani e buona parte dei croati si pronunciarono a favore dell’indipendenza.
La guerra
A partire da quel momento, ciò che restava dell’esercito jugoslavo e soprattutto i gruppi paramilitari serbi iniziarono una massiccia operazione di pulizia etnica nel nord est della Bosnia, compiendo uccisioni di massa, stupri, saccheggi ai danni della popolazione musulmana dei villaggi a ridosso della Drina (fiume che segnava, e segna tutt’ora, il confine tra Bosnia e Serbia): Bijelina, Zvornik, Bratunac,Višegrad sono i nomi a cui la memoria lega l’inizio del conflitto bosniaco. La guerra arrivò ufficialmente a Sarajevo circa un mese più tardi: il 5 aprile 1992 si teneva in città una grande manifestazione per la pace e quando la folla raggiunse l’hotel Holiday Inn, sede del quartier generale di Karadžić, alcuni cecchini appostati sui tetti spararono su di essa. Alla fine di quella drammatica giornata, i cosiddetti Berretti verdi, la polizia che dipendeva direttamente dal presidente Izetbegović, riprese il controllo della città, ma le milizie serbe (ex-soldati dello JNA, VRS-Esercito per la Repubblica Serba e paramilitari serbi e serbo bosniaci) si attestarono sulle montagne circostanti, dando inizio ad un interminabile assedio, tolto completamente solo nel febbraio del 1996.
E’ impossibile, nello spazio di poche righe, ripercorrere nella loro complessità i circa tre anni di conflitto in Bosnia. Il rischio, quando si parla di tale conflitto, è sempre quello di incorrere in fuorvianti semplificazioni. Si può parlare, come comodamente fecero i teorici del non intervento, di una guerra civile, dove serbi, croati e musulmani avevano eguali responsabilità. Questo è certamente falso: nessuno storico serio può oggi negare che lo smembramento della Bosnia-Erzegovina sia stato pianificato e favorito dai governi nazionalisti di Belgrado e Zagabria. Uno dei primi bersagli delle bombe serbe, la biblioteca di Sarajevo (colpita e incendiata nella notte del 25 agosto 1992), venne scelto appositamente per distruggere le prove dell’esistenza di una storia e cultura specificamente bosniaca. Eliminare gli antichissimi volumi lì conservati, testimonianza della vivacissima e peculiare cultura della Bosnia, serviva a mandare il seguente messaggio: la Bosnia non è altro che un’invenzione, i bosniaci torneranno ad essere quello che sono sempre stati prima dell’incidente dell’occupazione ottomana, cioè serbi ortodossi o croati cattolici.
D’altra parte, però, è sbagliato e troppo comodo anche ridurre il conflitto bosniaco ad un’aggressione perpetrata dall’esterno ad opera di eserciti stranieri. La propaganda nazionalista infatti attecchì fortemente anche all’interno del Paese, soprattutto nelle aree rurali, che ricoprono di gran lunga la maggioranza del territorio. Le milizie serba (VRS) e croata (HVO), braccio armato dei partiti di Karadžić e Kljuić, reclutarono la maggior parte dei propri combattenti in terra bosniaca e l’Armija Bosne i Hercegovine, l’esercito regolare creato in tutta fretta dopo il referendum sull’indipendenza, che avrebbe dovuto essere multietnico, andò via via sempre più islamizzandosi nel corso del conflitto, sia perché vennero espulsi o marginalizzati i non-musulmani che avevano scelto di combattere nelle sue fila (ricordiamo per tutti il generale serbo Jovan Divjak, che giocò un ruolo chiave nell’organizzare le prime fasi della difesa di Sarajevo), sia perché vennero accettati armi, finanziamenti e perfino unità combattenti provenienti da Paesi arabi quali l’Iran e l’Arabia Saudita.
Inizialmente le milizie croato-bosniache si schierarono con l’Armija contro i serbo-bosniaci. I fronti sui quali si combatteva sono moltissimi: per semplificare possiamo ricordare quello nord-est (tutta la zona a ridosso del fiume Drina), quello nord-ovest (zona di Bihać), quello di Sarajevo e della sua regione e quello, a sud, dell' Erzegovina. In quest'ultima zona, con capoluogo Mostar, si ebbe a partire dal 1993 un nuovo conflitto nel conflitto: una volta respinto insieme l'assalto dei serbo-bosniaci, le milizie croato bosniache e musulmane si scontrarono per il controllo della regione, che la Croazia avrebbe voluto annettersi e che venne denominata Herceg-Bosna (Bosnia Croata). La città di Mostar venne rasa al suolo, il suo antico ponte (Stari Most), che collegava la parte croata a quella musulmana della città, fu distrutto da un bombardamento delle milizie croate. Colloqui di pace fra croati e musulmani si tennero a Washington nel 1994 e si conclusero con un accordo (1 marzo), in seguito al quale fu decisa la creazione di una Federazione croato-musulmana in Bosnia.
Dopo l’inizio della guerra, nel giro di poco tempo i serbo-bosniaci arrivarono ad occupare circa i due terzi del territorio bosniaco. Essi, che godevano dell’appoggio di Belgrado, erano certo meglio armati rispetto all’esercito regolare bosniaco. Ricordiamo, tra l’altro, che fin dal 1991 vigeva l’embargo sulla vendita di armi a tutti i Paesi della (ormai ex) Federazione Jugoslava. Oggi questa decisione della comunità internazionale è spesso fatta oggetto di critiche, dato che di fatto finì per favorire gli aggressori (che potevano contare sull’enorme arsenale dell’ex JNA), lasciando gli aggrediti (prima i croati in Slavonia e nelle Kraijne, poi i bosniaci) con scarsi mezzi di difesa.
Il mondo e il conflitto bosniaco
Di fronte al conflitto bosniaco (e più in generale di fronte a tutti i conflitti nella ex-Jugoslavia del 1991-95), gli Stati Uniti si mostrarono spaventati e indecisi, l’Europa debole ed impreparata. A Washington, Bill Clinton era desideroso di rilanciare l’immagine degli Stati Uniti dopo che la prima guerra del Golfo, condotta da Bush padre, sembrava averli condannati al ruolo di antipatici gendarmi del mondo. La nuova dottrina americana era quella del disimpegno: nessun intervento militare se non in zone assolutamente strategiche per gli interessi statunitensi (perché poi intervenire, in assenza di seri interessi, proprio in un’area considerata da sempre molto rischiosa come i Balcani?). A Bruxelles, invece, sembrava che tutti fossero contenti di assumere il ruolo di mediatori nella crisi jugoslava, perché ciò avrebbe dimostrato come l’Europa fosse finalmente matura e capace di risolvere da sola i propri guai. Il macello bosniaco dimostrò invece l’esatto contrario: né l’Europa, né l’ONU, cui l’Europa aveva scelto di affidarsi per gli interventi sul campo fornendole un gran numero di caschi blu, riuscirono minimamente a cambiare il corso degli eventi. Anzi, a causa di regole di ingaggio poco chiare, stabilite per lo più seguendo la dottrina francese dell’assoluta neutralità (tutte le parti in conflitto andavano considerate alla pari, quella bosniaca era una “semplice” guerra civile), i caschi blu si trovarono ad essere ostaggio dei serbo-bosniaci, molto abili ad usarli come merce di scambio.
Srebrenica – ONU e NATO: la vergogna
In seguito ad alcune risoluzioni ONU, nel 1993 vennero create sei “aree protette”, coincidenti con le città di Sarajevo, Tuzla, Zepa, Goražde, Bihać e Srebrenica. Chiunque abbia un ricordo di quegli anni sa che nessuna di queste zone venne “protetta”, ma è in particolare a Srebrenica, nella Bosnia nord-orientale, che nel luglio del 1995 si consumò un massacro di proporzioni sconosciute in Europa dopo la seconda guerra mondiale, di cui furono vittima più di ottomila musulmani bosniaci. Srebrenica, nel 1995, rimaneva l’ultima enclave musulmana in una zona che di lì a poco sarebbe stata interamente assegnata ai serbo-bosniaci. A partire dal 1993, questa cittadina si era riempita di profughi musulmani provenienti dai paesi vicini ed aveva rappresentato l’ultima sacca di resistenza ai serbo-bosniaci nella valle della Drina. I caschi blu, prima francesi poi olandesi, si erano limitati a chiedere la consegna delle armi sia ai serbo-bosniaci assedianti (che ne consegnarono una quantità ridicola), sia alle milizie che difendevano la città (tra le quali, peraltro, si trovavano diversi gruppi di assai dubbia reputazione, in alcuni casi invisi alla stessa popolazione assediata). Come risultato si ebbe che l’assedio continuò, con i caschi blu che non potevano sparare e gli assediati che avevano a disposizione meno armi per difendersi. Se la città non cadde subito fu soltanto perché il comando serbo-bosniaco preferì concentrarsi su altri obiettivi, che si trovassero meno sotto i riflettori della comunità internazionale, rimandando l’assalto finale a Srebrenica. Il momento arrivò, appunto, nel luglio del 1995, quando ormai i giochi sembravano fatti per la conclusione del conflitto bosniaco. Spinti dalla pressione dell’opinione pubblica, che non tollerava più il totale disinteresse verso il quotidiano massacro bosniaco, gli USA avevano deciso di cambiare atteggiamento e intervenire direttamente. Tale “nuovo corso” si era concretizzato nelle trattative che avevano portato alla cessazione delle ostilità tra croato-bosniaci e musulmani e, successivamente, in un intervento armato della NATO contro le postazioni serbo-bosniache, il cui scopo non era annientare i serbi, ma farli sedere al tavolo delle trattative. Fu proprio la certezza di un disinteresse della NATO per un territorio che, era scontato, gli accordi di pace avrebbero assegnato ai serbo-bosniaci a spingere questi ultimi, sotto il comando di Ratko Mladić, all’assalto finale. Srebrenica, senza che la NATO né i caschi blu olandesi, cui spettava in quei mesi il controllo della “zona protetta”, sparassero un colpo in sua difesa, cadde l’undici luglio 1995. Ai caschi blu, ostaggi degli uomini di Mladić, venne permesso di abbandonare l'area, dopo di chè si procedette alla separazione delle donne e dei bambini musulmani dagli uomini, che vennero passati per le armi e seppelliti in decine di fosse comuni (ad oggi le vittime accertate di quel massacro superano le 8000, ma moltissimi sono ancora i corpi mai ritrovati o mai identificati).
La pace – La Bosnia dopo Dayton
L’architettura politico-istituzionale della Bosnia-Erzegovina odierna è il risultato degli accordi di pace firmati da Slobodan Miloševič, Franjo Tudjman e Alija Izetbegović a Dayton (Ohio) nell’autunno del 1995. La critica che più di frequente viene mossa, non certo a torto, a tali accordi, è quella di avere legittimato le aspirazioni di quei partiti nazionalisti che avevano portato la Bosnia-Erzegovina alla guerra. La nuova Bosnia è oggi uno Stato (se così si può definire) dove tutto è ripartito su base etnica. La costituzione indica come popoli fondatori serbi, croati e musulmani e stabilisce i meccanismi di divisione del potere tra di essi (il chè, peraltro, esclude dal diritto alla rappresentanza politica le numerose altre minoranze presenti sul territorio).
Gli accordi di Dayton sanciscono l'intangibilità delle frontiere, uguali ai confini fra le repubbliche federate delle ex Jugoslavia, e prevedono la creazione di due entità interne allo stato di Bosnia Erzegovina: la Federazione Croato-Musulmana (FBIH, 51% del territorio nazionale, suddivisa in 10 cantoni e 92 municipalità) e la Repubblica Serba (RS, 49% del territorio, con un solo governo centrale e 63 municipalità). Il distretto di Brčko, sul quale non fu possibile trovare un accordo, fa formalmente parte di entrambe le entità. Le due entità sono dotate di poteri autonomi in vari settori, ma sono inserite in una cornice statale unitaria. Alla Presidenza collegiale del Paese siedono un serbo, un croato e un musulmano, che a turno, ogni otto mesi, si alternano nella carica di presidente. Particolarmente complessa la struttura legislativa: ciascuna entità è dotata di un parlamento locale: la Repubblica Serba di un'assemblea legislativa unicamerale, mentre la Federazione Croato-Musulmana di un organo bicamerale. A livello statale vengono invece eletti ogni quattro anni gli esponenti della camera dei rappresentanti del parlamento, formata da 42 deputati, 28 eletti nella Federazione e 14 nella RS; infine della camera dei popoli fanno parte 5 serbi, 5 croati e 5 musulmani.